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Sondaggi: strumenti di conoscenza o di manipolazione?

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Viviamo oggi in una “sondocrazia”, dove qualunque fatto o evento viene monitorato attraverso sondaggi. Li consultano le aziende per stabilire le proprie strategie di marketing, ma anche i politici, per analizzare gli orientamenti dell’opinione pubblica. Quale il limite oltre il quale i sondaggi diventano mezzi esposti alla manipolazione? Questa la domanda che ha guidato il dibattito al Teatro Gobetti con Alessandra Ghisleri, fondatrice dell’agenzia di ricerche Euromedia Research, e Renato Mannheimer, sondaggista e analista delle tendenze elettorali per il Corriere della Sera e presidente dell’Ispo, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Moderatore Giancarlo Bosetti, direttore di Reset.

Dall’inizio degli anni Novanta i sondaggi sono stati introdotti violentemente all’interno del sistema mediatico. Alessandra Ghisleri è convinta dell’efficacia dello strumento, poiché, basandosi su un metodo scientifico, permette di fotografare in maniera abbastanza precisa la realtà analizzata. La diffidenza di cui spesso vengono circondati è dovuta dalla confusione tra sondaggi e analisi come il televoto e le vox populi registrate dalle testate giornalistiche. I sondaggi vengono effettuati su un campione rappresentativo e per questo sono utili a far conoscere le esigenze di un determinato pubblico di riferimento in relazione ad una scelta che si deve compiere. Se poi i risultati dell’indagine vengono pubblicati dai giornali con toni esagerati questo è un altro discorso. “I sondaggi non sono manipolatori. Piuttosto è l’uso che si fa di questi che può essere fuorviante. Spesso i media tendono ad enfatizzare i risultati per fare notizia e vendere più copie” – commenta la sondaggista. I sondaggi servono soprattutto per capire le motivazioni che stanno dietro le dichiarazioni degli intervistati.

Renato Mannheimer commenta: “Smettiamola con la capacità predittiva dei sondaggi. Questi fotografano la situazione attuale, non prevedono i risultati elettorali. Solo se le elezioni si svolgessero nel giorno stesso dell’indagine avremmo una previsione corretta”. Questo perché il 40% dell’elettorato è rappresentato dagli indecisi, che scelgono chi votare all’ultimo minuto. “Oggi non ci sono più convinzioni politiche basate su forti ideologie. Le elezioni in realtà si fanno solo per gli indecisi e i sondaggi influiscono nella scelta tanto quanto il look dei candidati” – conclude Mannheimer.

Francesca Dalmasso, Master in Giornalismo di Torino

Risorgimento: la lettura di Fisichella

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“Il miracolo del Risorgimento”. Così Domenico Fisichella chiama il processo che ha portato all’Italia unita. Un cammino concluso a metà Ottocento dalla dinastia sabauda, l’unica in quel momento storico in grado di proporsi come attore credibile ed efficace. Per spiegare le sue conclusioni, il professore di Dottrina dello Stato ed ex ministro e senatore, parte da lontano. Da quel Medioevo che unì popoli latini a popoli germanici, creando un misto di lingua, usanze, consuetudini e diritto.

Secondo Fisichella gli altri paesi europei come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna, costruirono l’unità politico-territoriale secoli prima dell’Italia, grazie a dinastie che si imposero con metodi feudali. In Italia invece il processo di unificazione dovette fare i conti con l’idea di Nazione propagandata dalla Rivoluzione francese. A questo principio di nazionalità, dopo la sconfitta di Napoleone, le potenze della Restaurazione aggiunsero nel 1814 altri due concetti imprescindibili: l’equilibrio tra le potenze e la legittimità dinastica.

Questi limiti furono determinanti nei fatti Italiani, e fecero fallire molti disegni unitari di inizio Ottocento. Infatti la soluzione rivoluzionaria era osteggiata dal principio legittimista; L’opzione repubblicana non si addiceva alla realtà italiana, dove le uniche repubbliche esistite fino al termine del Settecento altro non erano che oligarchie, in contrasto col principio democratico professato da Mazzini. Infine la proposta federale non era fattibile, perché gli unici due tentativi progettati (quello dell’Austria nel 1814 e quello della Francia di Napoleone III nel 1858) avrebbero consegnato l’egemonia a potenze straniere.

Di fronte a questa situazione, l’unico Stato che poteva proporsi alla guida dell’unificazione era il Regno di Sardegna, e questo per due motivi. I Savoia erano l’unica dinastia italiana che governava da secoli con un certo consenso da parte del suo popolo. Inoltre erano la monarchia italiana che vantava la maggiore legittimità, perché, come ebbe sottolineare il filosofo Croce, citato da Fisichella, i Savoia erano “la più antica dinastia sovrana che rimanesse in Europa”.

Grazie anche allo Statuto Albertino del 1848, che garantiva i principi di libertà e nazionalità, il Piemonte coagulò attorno a sé le speranze dei patrioti italiani, e, secondo Fisichella, portò al compimento dell’unica soluzione davvero realizzabile di unità nazionale italiana. Per fare questo i Savoia dovettero sconfiggere tutte le tendenze che si opponevano all’unificazione, come il particolarismo, il localismo, il municipalismo, l’oligarchismo. Tendenze che, secondo Fisichella, sono ritornate alla ribalta nell’Italia di oggi con i tentativi di riforma federalista. Un’opzione che, secondo il professore, indebolirebbe le basi dell’unità nazionale del nostro Paese.

Francesco Riccardini, Master in giornalismo di Torino

Narcisismo e potere. L’analisi di Salvatore Natoli e Nadia Urbinati

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Il narcisismo è un pericolo per la democrazia? La risposta del professor Salvatore Natoli dell’Università Bicocca di Milano e della professoressa Urbinati della Columbia University non è assolutamente scontata. E’ vero infatti che la descrizione del narciso corrisponde perfettamente a quella del tiranno: innamorato della propria immagine, aspira ad avere il potere e a comandare sugli altri fino a perdere del tutto la sua umanità. “Ma non tutti i narcisi – puntualizza Natoli – possono prendere il potere. Il narcisismo deve essere intelligente”.

Secondo Nadia Urbinati siamo tutti potenzialmente tiranni – quindi narcisi – ma allo stesso tempo saggi. “La sfida è proprio quella di usare tutte le armi del genere umano senza farne prevalere una in particolare. Come? Lasciando libere le emozioni ma limitandole nel tempo, proprio come succede con le elezioni politiche”.

Il punto che emerge dalle riflessioni del due cattedratici è che la democrazia moderna è la miglior forma della contraddizione umana e la democrazia esiste proprio dove c’è conflitto. “In questo – conclude Natoli – l’Italia ha una bassa diversificazione sociale motivo per cui la democrazia non si è mai realizzata completamente”.

Carlotta Addante, Master in giornalismo Torino

Soldati privati, eserciti e difesa

“Ogni volta che sentiamo parlare di security contractors, immaginiamo personaggi con il cappellino da baseball e il fucile d’assalto, in giro a far danni in qualche provincia occupata. In realtà le cose sono un po’ più complesse”. Così  Stefano Ruzza ha presentato al Circolo dei lettori il tema dei Contractors, i soldati privati che oggi affiancano l’esercito regolare nella gestione delle zone di conflitto. A parlare prima di lui è stato il colonnello Antonio Fantastico: un’ introduzione necessaria, in quanto è difficile comprendere come agiscono i soldati privati se si ignora come è cambiata l’attività dell’esercito. Che negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le missioni di pace, si è avvicinata sempre più alla funzione civile: in Afghanistan, ad esempio, i soldati italiani stanno lavorando allo sviluppo del sistema di istruzione, della sanità, del sistema idrogeologico.

Questo nuovo paradigma è il cosiddetto Comprehensive approach: il lavoro in sinergia di forze militari, civili e governo locale. “ L’obiettivo – ha chiarito Fantastico – è sempre lo sviluppo della popolazione locale.  Gli  insurgents e i signori della guerra agiranno sempre in senso contrario, cercando cioè di cooptarla con la predicazione o con la minaccia: la popolazione quindi, costituisce l’elemento decisivo per la conclusione rapida e positiva di un conflitto”. I contractors rappresentano l’altro lato di questo approccio: tanto maggiore è la funzione civile assunta dall’esercito, tanto più crescono le mansioni militari appaltate a soggetti con lo status di civili.  Mansioni che aumentano proporzionalmente al fatturato di queste ditte: la ex Blackwater, ad esempio, passò – tra il 2001 e il 2006 – da 774.000 dollari a 593 milioni  annui. La Caci, nonostante il coinvolgimento nello scandalo del carcere di Abu Graib , supera oggi i 3 miliardi di fatturato annuo.

È chiaro, a questo punto, che non si parla di semplici mercenari. “Va chiarito subito – ha precisato Ruzza – che con il termine contractor non si intende il singolo soldato, ma l’intera struttura aziendale nella quale opera. Ed è una distinzione fondamentale per comprendere l’espandersi di queste organizzazioni”.

La fisionomia aziendale, infatti, determina il successo dei contractors: rimuove lo stigma del mercenariato e al contempo permette loro di agire come persone giuridiche anziché fisiche, con la conseguente flessibilità in tema di responsabilità.  “Vale da dire – ha continuato Ruzza – che se la mia ditta è accusata di qualcosa, le cambio nome e ricomincio daccapo”.

Resta da capire perché l’esercito americano oggi richieda una presenza  sempre maggiore dei soldati ‘privati. “Nei conflitti di oggi – ha spiegato Fabio Armao, moderatore dell’incontro – i confini tra guerra e pace sono diventati molto più indefiniti, con una conseguente dilatazione dei tempi di occupazione”. Coinvolgere i contractors permette allora all’esercito e al governo di reggere meglio la pressione dell’opinione pubblica. “La mobilitazione militare percepita – ha precisato Stefano Ruzza – è molto minore: ovvero, ci sono molte meno bare di militari che rientrano in patria. È per questo che ormai il rapporto tra operatori privati e militari in Afghanistan è di 1 a 1.”

I contractors, inoltre, permettono all’esercito di aggirare i limiti di budget: spesso il pagamento di queste ditte si trova sotto voci di spesa differenti da quelle destinate alla forza bellica. Se necessario, infine, il loro utilizzo  permette a un  governo di negare il coinvolgimento diretto in un conflitto armato. Fu il caso, ad esempio, della Guerra di indipendenza croata, in cui  ditte di contractors vennero pagate dal Governo croato con gli aiuti in danaro appositamente inviati dagli Stati Uniti.

 

Antonio Storto – master in giornalismo di Torino

Bazoli racconta la Costituzione

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Giovanni Bazoli è un banchiere, soprattutto. Ma non solo. E’ stato professore di Diritto amministrativo all’Università Cattolica di Milano e, per “inclinazione familiare”,  è un grande “ammiratore” della Costituzione. Per Lei, perciò, ha fatto un’eccezione, accantonando per una volta l’annosa riluttanza a esprimersi su questioni politiche.

Nella suggestiva e significativa cornice della Sala del Senato di Palazzo Madama – da poco ristrutturata – Mario Calabresi ha affidato alle considerazioni giuridiche e ai ricordi familiari di Bazoli il senso dell’incontro “La Costituzione: una carta attuale ma non completamente attuata”.

Il padre del banchiere bresciano è stato un componente dell’Assemblea Costituente e, negli anni  a seguire, un parlamentare che ha fatto della battaglia per l’attuazione effettiva e completa della Carta  (istituzione della Corte Costituzionale e delle Regioni) la ragione principale del proprio ruolo. “Era impressionato dall’alto livello delle persone che facevano parte della Costituente e dalla qualità del dibattito” – ha detto Bazoli, alternando al racconto la lettura di alcuni interventi fatti in Assemblea da giganti quali Togliatti , Einaudi e Croce.

“La Carta è la casa di tutti gli italiani. E, come diceva Calamandrei, deve vivere nella coscienza dei cittadini, ogni giorno. Purtroppo oggi siamo lontanissimi da questo approccio, dall’esistenza di uno spazio comune di valori condivisi”. Bazoli ha ripercorso gli sforzi fatti dalle varie anime della Costituente per arrivare al compromesso che ha generato la Carta, descritta in primis come il frutto della commistione tra i valori liberali e quelli del solidarismo cattolico. In questo quadro, ha fatto riferimento alla grande importanza del dibattito di quegli anni sulla prima parte della Costituzione, quella dei Principi fondamentali.

Poi, sollecitato dal direttore de La Stampa sul dibattito dei giorni nostri, relativo alle spinte rivolte a modificare la Costituzione, si è detto “preoccupato”. “Oggi non ci sono le condizioni per cambiarla. C’è chi ipotizza addirittura la formazione di una nuova assemblea Costituente? E’ improponibile. Prima di tutto perché non ci sono le condizioni “storiche” di cui necessita una cosa del genere: non c’è unione d’intenti tra le forze politiche, non c’è passione civile, non ci si riconosce in un insieme di valori comuni. E credo che, a livello giuridico, quest’ipotesi contrasti con la stessa Costituzione”.

Ermanno Forte, Master in giornalismo di Torino

Umberto Eco e “le forme della memoria”

Eco e Zagrebelsky al Regio

Una lezione da non dimenticare. Umberto Eco durante il suo intervento al Teatro Nuovo (“Le forme della memoria”) in effetti si muove verso questa direzione: “non può esistere un’arte della dimenticanza, scordiamo e basta. Si deve garantire reperibilità di ciò che è stato cancellato perché non venga perso del tutto”.

Il ricordo è l’espressione più intima dell’anima e come tale è giusto che resti prezioso. Ricordare tutto, secondo il semiologo vuol significare “restare immobili in un punto, osservare inermi il flusso del divenire. Proprio come avviene per il Funes di Jorge Luis Borges”.  Ecco allora che il prendere parte attiva al processo della rimembranza consegna all’uomo una dimensione eccezionale.

“Il World Wide Web è il Funes di oggi – prosegue Eco –. Per un verso fa bene ai ricchi di cultura, che hanno così la possibilità di accrescere il loro sapere. Dall’altro lato però Internet fa male a chi è carente di cultura, perché incapace di filtrare l’enorme quantità di informazioni a disposizione”. Insomma, l’esatto inverso della televisione. Capace un tempo di insegnare l’italiano a chi poco lo conosceva, adesso la “scatola magica” riesce tante volte a distrarre, con i suoi spesso futili programmi, molte menti sveglie e promettenti.

“Internet rappresenta il massimo del rumore che non fornisce alcuna informazione – continua lo scrittore -. Se provi a cercare qualcosa, ti ritrovi a vagare per la rete imbrigliato in qualcos’altro senza neanche rendertene conto”. Ed in effetti il mondo dell’informazione ha cambiato il proprio volto negli ultimi anni. Oggi le notizie che un tempo finivano in fondo nei giornali, aprono le trasmissioni televisive. La spettacolarizzazione dei media, l’assuefazione delle nuove tecnologie da parte dei consumatori, fanno il resto. Il silenzio è un valore immenso all’interno di questo frastuono di informazioni.

Il compito della cultura è così certamente quello di ricordare anche opinioni che poi si sono rivelate sbagliate, purché queste “restino reperibili in qualche archivio o museo”. La censura è sempre dietro l’angolo, volontaria o involontaria che sia. “Coprire fatti importanti con numerose notizie inutili, è qualcosa che non dovrebbe mai avvenire. C’è bisogno insomma di tirar fuori una nuova arte della memoria e della dimenticanza”.

Riccardo Di Grigoli, Master in giornalismo Torino

Il decalogo del buon demagogo

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“Gli immigrati ci invadono”. E la platea si infiamma. Sembra di essere ad Annozero o a Porta a Porta, invece siamo all’incontro “Demagogia: la deriva populista della democrazia”, a cura dell’associazione Ludwig in collaborazione con gli allievi della Scuola Holden. Due attori, nascosti tra il pubblico, accendono la discussione sul tema immigrazione, a riprova che ormai “il litigio è in modalità automatica”.

L’escamotage è servito ai due relatori del laboratorio, Marzia Camarda e Simone Lattes, entrambi membri di Ludwig, per spiegare quali sono le caratteristiche del linguaggio demagogico che potrebbero essere riassunte in: semplificare, terrorizzare, promettere e far dimenticare. La mission del demagogo, infatti, è quella di fare leva sulle emozioni e i pregiudizi della gente per trascinare le masse a proprio vantaggio personale.

E come fa tutto questo? Il segreto sta nel semplificare il più possibile il linguaggio e puntare sullo scontro verbale. Il demagogo deve cercare di creare un senso di allarme perenne per dare l’idea di essere l’unico in grado di risolvere il problema. E se non dovesse riuscire a mantenere le promesse, è meglio distogliere l’attenzione su qualcos’altro, bombardano i cittadini di informazioni ma sempre tenendo ben lontani i dati, ovvero la verità. Un piccolo tuffo in quello che fa quotidianamente la nostra classe politica, senza che ce ne rendiamo conto, perché siamo ormai assuefatti al circolo vizioso della demagogia.

Carlotta Addante, Master in Giornalismo di Torino

Il federalismo secondo le giurie di cittadini

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Si fa spesso riferimento al tema del federalismo, nel nostro Paese. Più di quanto effettivamente lo si conosca. L’incontro di stamattina al Teatro Carignano – coordinato da Luigi Bobbio –   è stata un’occasione di confronto e scambio di opinioni, tra cittadini e esperti in materia.

La prima parte del dibattito è stata incentrata sulla presentazione dei risultati di un esperimento di democrazia partecipativa: nei mesi scorsi quattro giurie di cittadini ( due a Torino, una a Firenze e una a Lamezia Terme) hanno discusso per due giorni di federalismo, aiutati da moderatori e esperti. L’obiettivo di queste “discussioni informate” era quello di far emergere le considerazioni, le aspettative e le proposte relative al processo di decentramento fiscale e “funzionale” che in Italia, tra tante polemiche, è ormai iniziato. E sono stati alcuni rappresentanti delle giurie di cittadini a raccontare, dal palco del Carignano, le conclusioni alle quali sono giunti attraverso i dibattiti.

Un punto fermo, riconosciuto praticamente da tutte le giurie, è risultato quello della salvaguardia “totale” dei diritti e dei servizi essenziali (sanità, istruzione), senza barriere territoriali, oltre a quello dell’importanza di una più completa diffusione di informazioni sulle questioni più specifiche e tecniche relative al federalismo. Ma non sono mancate le divergenze: la giuria di Firenze, composta da studenti dei licei e universitari,  ha espresso un giudizio sostanzialmente negativo sul federalismo, soprattutto quello fiscale; i 12 cittadini di Lamezia Terme, invece, lo considerano un’occasione “di cambiamento positivo, di responsabilizzazione delle amministrazioni locali, un’opportunità per uno scatto di orgoglio”. Diverse le proposte specifiche presentate. Tra queste, quella presentata da uno dei gruppi torinesi, relativa alla necessità di trasmettere le competenze dei funzionari del centro-nord a quelli del sud, per ridurre il divario tra le due parti del Paese.

A seguire, ci sono stati gli interventi degli “addetti ai lavori”: Domenico Fisichella e Luca Ricolfi. Il primo ha esposto la sua visione fortemente pessimistica nei confronti del federalismo. L’ex senatore ha descritto il cambiamento che si prospetta per l’Italia come una “disarticolazione istituzionale, che sta nascendo con la logica dei privilegi per alcuni e delle discriminazioni per altri”. Secondo Fisichella la voglia di federalismo “che non diminuirà il potere delle oligarchie”, è il frutto di un salto logico, che va dal “giusto riconoscimento dei problemi legati al centralismo e agli eccessi burocratici, alla necessità  sbandierata di fare il federalismo”. E la sua critica ribalta uno dei punti cruciali della riforma, il prelievo fiscale affidato agli Enti locali: “L’eccesso di vicinanza dell’autorità non fa altro che determinare maggiori compiacenze, clientelismi”. Poi, sulla Costituzione: “Meno la tocchiamo e meglio è” Luca Ricolfi, invece,  si è definito un federalista.

Ma ha precisato: “Questo federalismo, per come è stato impostato, non può funzionare”. L’editorialista de “La Stampa” ha spiegato che l’idea di partenza del federalismo, nato per ottimizzare il prelievo fiscale e per ridurre gli sprechi della spesa pubblica, era valida. In sostanza, però,  “gli effetti della riforma cominceremo a vederli nel 2019, forse. Ma, anche ammettendo che funzioni – e non sarà così – sarà troppo tardi.”

In chiusura, l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia. Il costituzionalista ha fatto riferimento all’irragionevolezza del progetto federalista nostrano, “quello delle divisioni, dell’ ‘ognuno a casa propria’. Non è possibile percorrere questa strada nel terzo millennio”. Ed ha sottolineato l’importanza, per il prossimo futuro dell’Italia, dell’atteggiamento fiducioso mostrato dai giovani delle giurie di cittadini. Delle loro speranze, rivolte a un cambiamento positivo.

Ermanno Forte, Master in Giornalismo Torino

La libertà di amare nelle società democratiche

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Si possono definire realmente democratiche società dove non è possibile esprimere a pieno la propria affettività? Questa la domanda che ha rappresentato il filo conduttore dell’incontro al Teatro Gobetti dal titolo “Liberi di amare. Omosessualità e transgenderismo nella società multiculturale”. Voci del dibattito Gianni Vattimo, Vladimir Luxuria e Franco Buffoni.

L'intervento di Vladimir Luxuria al Teatro GobettiLe rivendicazioni di diritti della gay community sono spesso appelli di tipo culturale. Sono l’espressione di un desiderio di democrazia: poter vivere a pieno la propria vita senza discriminazioni. Vladimir Luxuria, politica e attivista dei diritti Lgbt (Lesbian, gay, bisexual and transgender) spiega: “libertà di amare non significa solamente potersi innamorare di qualcuno, ma anche poter esternare questo amore. Fino alla libertà di sentirsi uguali agli altri, di poter fare progetti, di essere riconosciuti dallo stato”.

Secondo Vattimo, filosofo e politico torinese, le questioni intorno ai Lgbt sono frutto di decenni di repressione, i cui responsabili sono le tradizioni culturali locali e la Chiesa. Bisogna capire fino a che punto i rapporti con la comunità di appartenenza condizionano le persone. Un omosessuale può “infischiarsene di ciò che si pensa di lui, ma allo stesso tempo soffre perché appartiene ad un gruppo in cui non si riconosce”. La soluzione spesso è la fuga. Scappare da una “società legalmente repressiva, ma giuridicamente intollerabile”. Dalle città di provincia verso le metropoli, dall’Italia verso Paesi più tolleranti. “È un fatto democratico – continua Vattimo – non avere il diritto di organizzarsi una vita affettiva secondo ciò che detta il proprio cuore? Dov’è finito il diritto alla felicità?”.

La gay community sta vivendo una battaglia culturale, contro gli stereotipi e i preconcetti radicati nella nostra società. È una lotta che inizia nell’ambito famigliare. “La barzelletta meglio essere neri che gay, almeno non devi dirlo alla mamma è ancora valida” – conclude il filosofo.

Secondo Buffoni internet può rappresentare una chiave di svolta per educare i giovani alla cultura della diversità. E per aggiornare una legislazione antiquata, non al passo con i tempi.

Luxuria conclude con una nota sentimentale. Per ora, non essendoci una legge che riconosca le coppie di fatto, c’è solo un positivo per le coppie gay: esse vivono un sentimento intenso, un amore romantico, avversato. Quell’amore descritto da Shakespeare in Romeo e Giulietta e da Manzoni nei Promessi Sposi.

Francesca Dalmasso, Master in Giornalismo di Torino

I think tank: il fenomeno dei serbatoi di pensiero

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Si possono definire realmente democratiche società dove non è possibile esprimere a pieno la propria affettività? Questa la domanda che ha rappresentato il filo conduttore dell’incontro al Teatro Gobetti dal titolo “Liberi di amare. Omosessualità e transgenderismo nella società multiculturale”. Voci del dibattito Gianni Vattimo, Vladimir Luxuria e Franco Buffoni.

La risposta di Alessandro Campi, ex direttore scientifico di Fare Futuro e docente di Storia delle Dottrine Politiche, non si lascia attendere: ”Come abbiamo fallito sul bipolarismo abbiamo fallito anche con i think tank”. Secondo Campi, molte fondazioni italiane sono correnti occulte e rimandano ad un personaggio politico con il rischio che molte finiscano con la sua carriera.

A sfatare il mito delle associazioni legate a doppio filo con la politica ci prova però Andrea Gavosto, economista e direttore della Fondazione Agnelli, che da 50 anni si occupa di ricerca su temi sociali, soprattutto la scuola. Anche Davide Mattiello, presidente della neonata fondazione Benvenuti in Italia, spiega come il suo think tank sia un’altra cosa ancora. “Noi nasciamo come advocacy group la cui missione è quella di agire nello spazio pubblico per determinare gli esiti politici ed elettorali. Per questo facciamo anche campagna politica, per spostare il consenso”.

Irene Tinagli, membro del consiglio direttivo di Fare Futuro e docente alla Carlos III di Madrid, chiude l’incontro con una sfida: “Le fondazioni nascono perché è veramente difficile cambiare i partiti da dentro. Fare Futuro nasce proprio per far luce sui temi rimasti al margine del dibattito politico. La sfida è far si che le nostre riflessioni vengano ascoltate e si trasformino in politiche”. Insomma, c’è un assoluto bisogno di passare alle fase due dei think tank.

Carlotta Addante, Master in Giornalismo Torino

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Cosa e' Biennale Democrazia?
Biennale Democrazia è un laboratorio pubblico permanente, radicato nel territorio e rivolto alle grandi dimensioni della politica odierna, aperto al dialogo, capace di coinvolgere i giovani delle scuole e delle università e destinato a tutti i cittadini. Il progetto si articola in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie - laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, workshop di discussione, proposte specifiche - che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali, seminari di approfondimento e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
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Hessel ai giovani: reagite per costruire insieme un futuro di libertà e giustizia

  Sono le parole di Stephane Hessel ad aprire l’assemblea di chiusura del Campus di Biennale Democrazia: “Non basta indignarsi, bisogna cercare insieme di costruire libertà e giustizia. L’impegno dei singoli non è sufficiente. Bisogna unirsi per chiedere giustizia. L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia è un momento stupendo per ritrovarsi. Democrazia, in greco, vuol […]

Il rapporto finale della discussione informata sul federalismo

è possibile scaricare il documento con i risultati della discussione informata di Biennale Democrazia svoltasi da dicembre 2010 ad aprile 2011, a Torino e nelle città partner del progetto, Firenze e Lamezia Terme.   Scarica il documento Tweet

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